28.3.20

Combattere COVID-19 in Italia: etica, logistica e terapie dalla linea del fronte dell'epidemia

di Lisa Rosenbaum, M.D. (NEJM, March 18, 2020)
traduzione Dr. Simone Sbrenna, MD, PhD, medico convenzionato SSN

Introduzione a cura del Dr. Simone Sbrenna
Con un articolo sul prestigioso New England Journal of Medicine, la Dr.ssa Lisa Rosenbaum, cardiologa di Boston, Massachusetts, invita la comunità scientifica a non negare l’evidenza: a fronte di risorse ospedaliere limitate, l’epidemia da COVID-19 mette ogni giorno i medici italiani nella condizione di dover scegliere quali pazienti salvare e quali lasciar morire. Come il diritto al lavoro, anche il diritto alla salute (riconosciuto all’articolo 32 dalla Costituzione italiana come diritto fondamentale dell'individuo) è ormai lettera morta, essendo stato sacrificato sull’altare del pareggio di bilancio. In altre parole, l’obiettivo perseguito dal sistema sanitario nazionale non è più quello di tutelare la salute dei cittadini, ma di contenere la spesa sanitaria. Oltre ad auspicare la massima trasparenza su ciò che sta accadendo in Lombardia per ottenere maggiore cooperazione dalla popolazione (concetto condivisibile), la dr.ssa Rosenbaum insiste sul fatto che la scarsità delle risorse sia un dato di fatto ineludibile e non una precisa scelta di politica economica (concetto su cui vale la pena, invece, di riflettere). Dunque la giusta domanda da porsi forse non è “quale di questi due pazienti è più etico salvare?”, bensì “cosa ha reso impossibile salvarli tutti e due?”.


Combattere COVID-19 in Italia: etica, logistica e terapie dalla linea del fronte dell'epidemia. https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMp2005492
Lisa Rosenbaum, M.D. (NEJM, March 18, 2020)


Alcune settimane fa, il dottor D., primario di cardiologia di mezza età in uno dei più grandi ospedali del nord Italia, ha avuto la febbre. Temendo di essere stato contagiato da COVID-19, ha chiesto di eseguire un tampone nasofaringeo, ma gli è stato risposto che non c'erano abbastanza tamponi disponibili e che poteva eseguire il test solo chi aveva avuto contatti stretti con una persona infetta. Gli è stato quindi consigliato di restare a casa fino alla risoluzione della febbre. E’ tornato al lavoro 6 giorni dopo, ma dopo 5 giorni la febbre si è ripresentata e a breve è comparsa anche la tosse. Si è nuovamente messo in quarantena nel seminterrato della sua abitazione per non esporre la sua famiglia al rischio di contagio.

Con la metà dei 1000 letti del suo ospedale occupati da pazienti infettati da COVID-19, il dottor D., che alla fine ha potuto eseguire il tampone nasofaringeo e il 10 marzo ha ricevuto come risposta un risultato positivo, sa di essere un malato fortunato, almeno rispetto ai circa 60-90 pazienti contagiati da COVID-19 che si presentano quotidianamente al pronto soccorso del suo ospedale. La ventilazione non invasiva viene tentata nel maggior numero possibile di casi, ma la rapidità del deterioramento respiratorio nei pazienti più gravi, compresi alcuni giovani, è sorprendente e spesso imprevedibile. "Non hai una bibbia predittiva per orientarti", mi ha detto il dottor D. e tale incertezza non fa che accentuare l'agonia per le decisioni difficili che i dottori sono costretti a prendere. "Dobbiamo decidere chi può andare avanti e chi no" ha aggiunto.

Il dottor D. è uno dei tre medici con cui ho parlato che ha in cura i pazienti contagiati da COVID-19 in Lombardia, costretta a sopportare il peso di migliaia di infezioni da coronavirus e, a metà marzo, di più di 1000 morti. Sebbene la natura catastrofica dell'epidemia in Lombardia sia stata ampiamente raccontata (https://www.nytimes.com/2020/03/12/world/europe/12italy-coronavirus-health-care.html), quando ho parlato con loro, tutti e tre hanno richiesto l'anonimato, perché stavano trasgredendo le direttive ricevute. Il dottor L., un medico dello staff di un altro ospedale, ha ricevuto un promemoria ospedaliero che proibisce di parlare con la stampa per evitare di provocare ulteriore allarme nella popolazione. Tuttavia, come ha sottolineato, minimizzare la gravità della situazione sta avendo conseguenze letali. "I cittadini faticano ad accettare le restrizioni", ha detto, "a meno che tu non dica loro la verità".

Ecco l’amara verità. Sebbene il sistema sanitario italiano sia molto apprezzato e abbia 3,2 letti ospedalieri per 1000 persone (rispetto a 2,8 negli Stati Uniti), soddisfare contemporaneamente le esigenze di così tanti pazienti in condizioni critiche si è rivelato impossibile. Gli interventi chirurgici non urgenti sono stati annullati, le procedure differibili sono state posticipate e le sale operatorie sono state trasformate in unità di Terapia Intensiva di fortuna. Con tutti i letti occupati, le aree amministrative e i corridoi sono disseminati di pazienti, alcuni dei quali sottoposti a ventilazione non invasiva.

Come curare questi pazienti? Oltre al supporto respiratorio mediante ventilazione, nella terapia delle forme più gravi di polmonite virale da COVID-19 possiamo solo procedere per tentativi, provando a usare Lopinavir-Ritonavir, Clorochina e talvolta cortisonici ad alte dosi.

E come continuare a prendersi cura dei pazienti che presentano altre malattie non correlate a COVID-19? Sebbene gli ospedali stiano cercando di creare unità separate dedicate ai pazienti COVID-19, è difficile proteggere gli altri pazienti dal contagio. Il dottor D., ad esempio, ha riferito che almeno cinque pazienti che erano stati ricoverati nel suo ospedale per infarto miocardico si presume che siano stati infettati da COVID-19 proprio mentre erano ricoverati in ospedale.

Se proteggere gli altri pazienti è difficile, lo è anche proteggere gli operatori sanitari, inclusi infermieri, terapisti respiratori e coloro che hanno il compito di pulire le stanze tra i pazienti. Quando abbiamo parlato, il dottor D. era uno dei sei medici della sua divisione sospettati di aver contratto l'infezione da COVID-19. Dati i ritardi nei test e la percentuale di persone infette che rimangono asintomatiche, è troppo presto per conoscere il tasso di infezione tra il personale ospedaliero. E sono proprio queste circostanze che rendono così difficile il controllo dell’epidemia. "L'infezione è ovunque in ospedale", mi ha detto il dottor D. "Anche se indossi indumenti protettivi e fai il meglio che puoi, non puoi controllarli."

La sfida, ha precisato, non è tanto il prendersi cura dei pazienti con malattia critica correlata a Covid-19, nelle cui stanze i medici entrano indossando dispositivi di protezione, ma lo svolgimento delle molte altre attività quotidiane del personale sanitario: toccare i computer, salire sugli ascensori, vedere i pazienti ambulatoriali, mangiare qualcosa. La quarantena obbligatoria per medici e infermieri infetti, anche quelli con malattia lieve, sembra fondamentale per il controllo delle infezioni. Pertanto, la carenza di manodopera dovuta ai colleghi ammalati deve essere gestita in qualche modo, anche tenendo conto che il personale ospedaliero con un’età più avanzata è sicuramente più vulnerabile all’infezione da COVID-19. Un giovane, il dottor S., mi ha detto che nel suo ospedale sono soprattutto i medici più giovani a combattere in prima linea, anche svolgendo turni extra e lavorando al di fuori delle loro specializzazioni. Ciò nonostante, ha aggiunto, tra i suoi colleghi più anziani non c’è nessuna volontà di fare un passo indietro. "Puoi vedere la paura nei loro occhi", ha detto, "ma non rinunciano a svolgere il loro lavoro di medici."

Qualunque sia la paura che questi medici nutrono per la propria salute, quello che sembrano trovare ben più insopportabile è guardare le persone morire perché la scarsità delle risorse limita la disponibilità di supporti per la ventilazione meccanica dei pazienti più gravi. La situazione è così drammatica da spingerli ad esitare nel descrivere come siano costretti a prendere decisioni estreme. Il dottor S. ha tracciato uno scenario “ipotetico” che coinvolge due pazienti con insufficienza respiratoria, uno di 65 anni e l'altro di 85 anni affetto da altre patologie: con un solo ventilatore, devi intubare il 65enne (e lasciare morire l’85enne). Il dottor D. mi ha detto che il suo ospedale ha preso in considerazione, oltre alla presenza di altre malattie, la gravità dell'insufficienza respiratoria e la probabilità di sopravvivere all'intubazione prolungata, con l'obiettivo di dedicare le sue risorse limitate a coloro che possono trarne maggiori benefici avendo una probabilità più alta di sopravvivere.

Sebbene gli approcci varino anche all'interno di un singolo ospedale, da quello che ho sentito spesso all'età viene dato una maggiore rilevanza. Ho ascoltato il racconto, ad esempio, riguardo un ottantenne che era "in perfetta salute fisica" fino a quando non ha sviluppato insufficienza respiratoria acuta da COVID-19. È morto perché non è stato possibile offrirgli la ventilazione meccanica. Anche se il sistema sanitario in Lombardia dispone di risorse importanti e ha ampliato il più possibile i posti letto in terapia intensiva, semplicemente non c'erano abbastanza ventilatori per tutti i pazienti che ne avevano bisogno. "Non c'è modo di trovare un'eccezione", mi ha detto il dottor L. "Dobbiamo decidere chi deve morire e chi dovremo mantenere in vita."

A contribuire alla scarsità delle risorse è l'intubazione prolungata di cui molti di questi pazienti necessitano a causa della polmonite virale - spesso da 15 a 20 giorni di ventilazione meccanica, con diverse ore trascorse in posizione prona e poi, in genere, uno svezzamento molto lento. Durante l’epidemia da COVID-19 in corso nel nord Italia, mentre i medici lottano ogni giorno per svezzare i pazienti dalla ventilazione meccanica, continuano ad arrivare altri pazienti con grave scompenso respiratorio, e gli ospedali hanno dovuto abbassare il limite di età dei pazienti da intubare, da 80 a 75 anni in un ospedale, per esempio. Sebbene i medici con cui ho parlato non fossero in alcun modo responsabili delle risorse insufficienti, tutti erano particolarmente sofferenti di fronte alla richiesta di descrivere come venivano prese le decisioni circa la scelta di quali pazienti intubare. Le mie domande sono state accolte con il silenzio o con l'esortazione a concentrarsi esclusivamente sulla necessità di prevenire i contagi e di mantenere opportune distanze tra le persone. Quando ho insistito con il dottor S., ad esempio, chiedendo se si stesse badando sull’età per decidere quali pazienti mettere in ventilazione meccanica, alla fine ha ammesso quanto gli dispiacesse di parlarne. "Questa non è una cosa bella da dire", mi ha detto. "Spaventerai solo un sacco di persone."
Il dottor S. è solo uno fra i tanti. La sofferenza generata dal dover prendere queste decisioni ha spinto molti medici della regione a cercare un consiglio etico. In risposta, il Collegio Italiano di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Rianimazione (SIAARTI) ha formulato raccomandazioni sotto la direzione di Marco Vergano, anestesista e presidente della Sezione Etica della SIAARTI (http://www.siaarti.it/SiteAssets/News/COVID19%20-%20documenti%20SIAARTI/SIAARTI%20-%20Covid-19%20-%20Clinical%20Ethics%20Reccomendations.pdf). Vergano, che ha lavorato sulle raccomandazioni da seguire nella cura dei pazienti critici in terapia intensiva, ha affermato che il comitato ha fatto appello alla "ragionevolezza clinica" e a quello che ha definito un approccio "utilitaristico soft" di fronte alla scarsità di risorse. Sebbene le linee guida non suggeriscano che l'età debba essere l'unico fattore che determina l'allocazione delle risorse, il comitato ha riconosciuto che potrebbe essere necessario fissare un limite di età per l'ammissione in terapia intensiva.

Spiegando la logica delle raccomandazioni, Vergano ha descritto quanto sia difficile per i pazienti fragili e per gli anziani sopravvivere alla prolungata intubazione richiesta per superare la polmonite causata da COVID-19. Per quanto straziante fosse ammetterlo, dopo circa una settimana di massiccia epidemia, è stato chiaro che intubare pazienti che avevano probabilità particolarmente basse di sopravvivere significava negare il supporto ventilatorio a chi invece aveva più alte speranze di sopravvivenza. In ogni caso, trattandosi di questioni così spinose, quando si deve mettere in pratica un razionamento delle risorse, passare il tutto sotto silenzio rende le cose più facili. D’altro canto, la guida etica è stata anche ampiamente criticata e i membri del comitato sono stati accusati di discriminare gli anziani. Altre critiche si sono basate sul fatto che la gravità della situazione sia stata sovradimensionata e che COVID-19 in fondo non sia peggio dell'influenza stagionale.

Sebbene i dilemmi etici, per definizione, non abbiano un’unica risposta giusta, se e quando altri sistemi sanitari affronteranno simili decisioni di razionamento delle risorse, il contraccolpo sociale sarà inevitabile. Per definire un contesto etico che regoli l'allocazione delle risorse in base alle priorità della società, Lee Biddison (un intensivista del Johns Hopkins), ha tenuto seminari in tutto il Maryland per confrontarsi con le posizioni dei membri della comunità. Il documento risultante, pubblicato nel 2019 e intitolato "Troppi pazienti ... un quadro per guidare l'allocazione statale della scarsa ventilazione meccanica durante i disastri" ha fatto notare che "una pandemia di influenza simile a quella del 1918 richiederebbe una terapia intensiva e una capacità di ventilazione meccanica significativamente maggiori di quelle ora disponibili” ed è giunto a principi etici simili a quelli del comitato italiano (Biddison et al. Chest 2019;155:848-854)..

I partecipanti hanno mostrato di condividere la bontà della scelta di salvare i malati con maggiore possibilità di sopravvivenza nel breve termine, e in seconda battuta, i malati che, grazie all’assenza di altre patologie coesistenti, avessero maggiori possibilità di sopravvivenza nel lungo termine. Sebbene i contributi dei partecipanti abbiano sottolineato che l'età non dovrebbe essere il criterio principale o unico per l'allocazione delle risorse, tutti hanno però riconosciuto che esistono circostanze in cui "potrebbe essere appropriato considerare l’età anagrafica nel processo decisionale".
Nonostante tali premesse etiche, quando si verifica una scarsità di risorse, ci sono molti scenari che potrebbero ancora risultare moralmente inaccettabili, in particolare a fronte ad una maggiore incertezza prognostica. Ad esempio, dovremmo togliere la ventilazione meccanica a un paziente stabilizzato che resiste strenuamente per darla a un altro paziente entrato da poco in insufficienza respiratoria? Dovremmo preferire di intubare una 55enne sana rispetto a una giovane madre con carcinoma mammario la cui prognosi non è chiara? Nel tentativo di affrontare tali dilemmi, Biddison e colleghi hanno anche formulato tre principi relativi alla questione che paiono vincolanti quanto quelli etici.

Il primo e più importante è separare i medici che forniscono assistenza da quelli che prendono le decisioni durante il triage, cioè durante l’inquadramento clinico del paziente. Il "responsabile del triage", supportato da un team con esperienza infermieristica e di terapia respiratoria, prenderebbe decisioni di allocazione delle risorse comunicandole al team clinico, al paziente e alla famiglia. Il secondo è che le linee guida generali per tali decisioni dovrebbero essere riviste periodicamente da un comitato di monitoraggio centralizzato a livello statale per garantire che non vi siano iniquità o scelte inadeguate. Il terzo è che anche l'algoritmo di triage dovrebbe essere rivisto regolarmente man mano che le conoscenze sulla malattia evolvono. Se decidessimo di non intubare i pazienti con COVID-19 per più di 10 giorni, per esempio, ma poi venissimo a sapere che questi pazienti hanno bisogno di almeno 15 giorni per riprendersi, avremo bisogno di cambiare i nostri algoritmi.

Unificare tutti questi principi, sia etici che pragmatici, equivale alla consapevolezza che solo mediante la massima trasparenza e inclusività sarà possibile ottenere la fiducia e la cooperazione della popolazione. In tutto il mondo - dai medici con la museruola in Cina, alle false promesse sulla capacità di eseguire tamponi per COVID-19 negli Stati Uniti, alle confutazioni delle affermazioni sul razionamento delle risorse in Italia - stiamo osservando che negare l’evidenza è controproducente. Il momento in cui la capacità di intervento viene sopraffatta dal panico dipende e dipenderà sempre dal contesto. Ma la tragedia in Italia rafforza la saggezza di molti esperti di sanità pubblica: usciremo da questa pandemia con la coscienza a posto solo se l’unica accusa che ci verrà rivolta sarà quella di avere affrontato l’emergenza esagerando le contromisure messe in atto.


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