traduzione Dr. Simone Sbrenna, MD, PhD, medico convenzionato SSN
Introduzione a cura del Dr. Simone Sbrenna
Con un articolo sul prestigioso New England Journal of Medicine, la Dr.ssa Lisa Rosenbaum, cardiologa di Boston, Massachusetts, invita la comunità scientifica a non negare l’evidenza: a fronte di risorse ospedaliere limitate, l’epidemia da COVID-19 mette ogni giorno i medici italiani nella condizione di dover scegliere quali pazienti salvare e quali lasciar morire. Come il diritto al lavoro, anche il diritto alla salute (riconosciuto all’articolo 32 dalla Costituzione italiana come diritto fondamentale dell'individuo) è ormai lettera morta, essendo stato sacrificato sull’altare del pareggio di bilancio. In altre parole, l’obiettivo perseguito dal sistema sanitario nazionale non è più quello di tutelare la salute dei cittadini, ma di contenere la spesa sanitaria. Oltre ad auspicare la massima trasparenza su ciò che sta accadendo in Lombardia per ottenere maggiore cooperazione dalla popolazione (concetto condivisibile), la dr.ssa Rosenbaum insiste sul fatto che la scarsità delle risorse sia un dato di fatto ineludibile e non una precisa scelta di politica economica (concetto su cui vale la pena, invece, di riflettere). Dunque la giusta domanda da porsi forse non è “quale di questi due pazienti è più etico salvare?”, bensì “cosa ha reso impossibile salvarli tutti e due?”.
Combattere
COVID-19 in Italia: etica, logistica e terapie dalla linea del fronte
dell'epidemia. https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMp2005492
Lisa
Rosenbaum, M.D. (NEJM, March 18, 2020)
Alcune
settimane fa, il dottor D., primario di cardiologia di mezza età in
uno dei più grandi ospedali del nord Italia, ha avuto la febbre.
Temendo di essere stato contagiato da COVID-19, ha chiesto di
eseguire un tampone nasofaringeo, ma gli è stato risposto che non
c'erano abbastanza tamponi disponibili e che poteva eseguire il test
solo chi aveva avuto contatti stretti con una persona infetta. Gli è
stato quindi consigliato di restare a casa fino alla risoluzione
della febbre. E’ tornato al lavoro 6 giorni dopo, ma dopo 5 giorni
la febbre si è ripresentata e a breve è comparsa anche la tosse. Si
è nuovamente messo in quarantena nel seminterrato della sua
abitazione per non esporre la sua famiglia al rischio di contagio.
Con
la metà dei 1000 letti del suo ospedale occupati da pazienti
infettati da COVID-19, il dottor D., che alla fine ha potuto eseguire
il tampone nasofaringeo e il 10 marzo ha ricevuto come risposta un
risultato positivo, sa di essere un malato fortunato, almeno rispetto
ai circa 60-90 pazienti contagiati da COVID-19 che si presentano
quotidianamente al pronto soccorso del suo ospedale. La ventilazione
non invasiva viene tentata nel maggior numero possibile di casi, ma
la rapidità del deterioramento respiratorio nei pazienti più gravi,
compresi alcuni giovani, è sorprendente e spesso imprevedibile. "Non
hai una bibbia predittiva per orientarti", mi ha detto il dottor
D. e tale incertezza non fa che accentuare l'agonia per le decisioni
difficili che i dottori sono costretti a prendere. "Dobbiamo
decidere chi può andare avanti e chi no" ha aggiunto.
Il
dottor D. è uno dei tre medici con cui ho parlato che ha in cura i
pazienti contagiati da COVID-19 in Lombardia, costretta a sopportare
il peso di migliaia di infezioni da coronavirus e, a metà marzo, di
più di 1000 morti. Sebbene la natura catastrofica dell'epidemia in
Lombardia sia stata ampiamente raccontata
(https://www.nytimes.com/2020/03/12/world/europe/12italy-coronavirus-health-care.html),
quando ho parlato con loro, tutti e tre hanno richiesto l'anonimato,
perché stavano trasgredendo le direttive ricevute. Il dottor L., un
medico dello staff di un altro ospedale, ha ricevuto un promemoria
ospedaliero che proibisce di parlare con la stampa per evitare di
provocare ulteriore allarme nella popolazione. Tuttavia, come ha
sottolineato, minimizzare la gravità della situazione sta avendo
conseguenze letali. "I cittadini faticano ad accettare le
restrizioni", ha detto, "a meno che tu non dica loro la
verità".
Ecco
l’amara verità. Sebbene il sistema sanitario italiano sia molto
apprezzato e abbia 3,2 letti ospedalieri per 1000 persone (rispetto a
2,8 negli Stati Uniti), soddisfare contemporaneamente le esigenze di
così tanti pazienti in condizioni critiche si è rivelato
impossibile. Gli interventi chirurgici non urgenti sono stati
annullati, le procedure differibili sono state posticipate e le sale
operatorie sono state trasformate in unità di Terapia Intensiva di
fortuna. Con tutti i letti occupati, le aree amministrative e i
corridoi sono disseminati di pazienti, alcuni dei quali sottoposti a
ventilazione non invasiva.
Come
curare questi pazienti? Oltre al supporto respiratorio mediante
ventilazione, nella terapia delle forme più gravi di polmonite
virale da COVID-19 possiamo solo procedere per tentativi, provando a
usare Lopinavir-Ritonavir, Clorochina e talvolta cortisonici ad alte
dosi.
E
come continuare a prendersi cura dei pazienti che presentano altre
malattie non correlate a COVID-19? Sebbene gli ospedali stiano
cercando di creare unità separate dedicate ai pazienti COVID-19, è
difficile proteggere gli altri pazienti dal contagio. Il dottor D.,
ad esempio, ha riferito che almeno cinque pazienti che erano stati
ricoverati nel suo ospedale per infarto miocardico si presume che
siano stati infettati da COVID-19 proprio mentre erano ricoverati in
ospedale.
Se
proteggere gli altri pazienti è difficile, lo è anche proteggere
gli operatori sanitari, inclusi infermieri, terapisti respiratori e
coloro che hanno il compito di pulire le stanze tra i pazienti.
Quando abbiamo parlato, il dottor D. era uno dei sei medici della sua
divisione sospettati di aver contratto l'infezione da COVID-19. Dati
i ritardi nei test e la percentuale di persone infette che rimangono
asintomatiche, è troppo presto per conoscere il tasso di infezione
tra il personale ospedaliero. E sono proprio queste circostanze che
rendono così difficile il controllo dell’epidemia. "L'infezione
è ovunque in ospedale", mi ha detto il dottor D. "Anche se
indossi indumenti protettivi e fai il meglio che puoi, non puoi
controllarli."
La
sfida, ha precisato, non è tanto il prendersi cura dei pazienti con
malattia critica correlata a Covid-19, nelle cui stanze i medici
entrano indossando dispositivi di protezione, ma lo svolgimento delle
molte altre attività quotidiane del personale sanitario: toccare i
computer, salire sugli ascensori, vedere i pazienti ambulatoriali,
mangiare qualcosa. La quarantena obbligatoria per medici e infermieri
infetti, anche quelli con malattia lieve, sembra fondamentale per il
controllo delle infezioni. Pertanto, la carenza di manodopera dovuta
ai colleghi ammalati deve essere gestita in qualche modo, anche
tenendo conto che il personale ospedaliero con un’età più
avanzata è sicuramente più vulnerabile all’infezione da COVID-19.
Un giovane, il dottor S., mi ha detto che nel suo ospedale sono
soprattutto i medici più giovani a combattere in prima linea, anche
svolgendo turni extra e lavorando al di fuori delle loro
specializzazioni. Ciò nonostante, ha aggiunto, tra i suoi colleghi
più anziani non c’è nessuna volontà di fare un passo indietro.
"Puoi vedere la paura nei loro occhi", ha detto, "ma
non rinunciano a svolgere il loro lavoro di medici."
Qualunque
sia la paura che questi medici nutrono per la propria salute, quello
che sembrano trovare ben più insopportabile è guardare le persone
morire perché la scarsità delle risorse limita la disponibilità di
supporti per la ventilazione meccanica dei pazienti più gravi. La
situazione è così drammatica da spingerli ad esitare nel descrivere
come siano costretti a prendere decisioni estreme. Il dottor S. ha
tracciato uno scenario “ipotetico” che coinvolge due pazienti con
insufficienza respiratoria, uno di 65 anni e l'altro di 85 anni
affetto da altre patologie: con un solo ventilatore, devi intubare il
65enne (e lasciare morire l’85enne). Il dottor D. mi ha detto che
il suo ospedale ha preso in considerazione, oltre alla presenza di
altre malattie, la gravità dell'insufficienza respiratoria e la
probabilità di sopravvivere all'intubazione prolungata, con
l'obiettivo di dedicare le sue risorse limitate a coloro che possono
trarne maggiori benefici avendo una probabilità più alta di
sopravvivere.
Sebbene
gli approcci varino anche all'interno di un singolo ospedale, da
quello che ho sentito spesso all'età viene dato una maggiore
rilevanza. Ho ascoltato il racconto, ad esempio, riguardo un
ottantenne che era "in perfetta salute fisica" fino a
quando non ha sviluppato insufficienza respiratoria acuta da
COVID-19. È morto perché non è stato possibile offrirgli la
ventilazione meccanica. Anche se il sistema sanitario in Lombardia
dispone di risorse importanti e ha ampliato il più possibile i posti
letto in terapia intensiva, semplicemente non c'erano abbastanza
ventilatori per tutti i pazienti che ne avevano bisogno. "Non
c'è modo di trovare un'eccezione", mi ha detto il dottor L.
"Dobbiamo decidere chi deve morire e chi dovremo mantenere in
vita."
A
contribuire alla scarsità delle risorse è l'intubazione prolungata
di cui molti di questi pazienti necessitano a causa della polmonite
virale - spesso da 15 a 20 giorni di ventilazione meccanica, con
diverse ore trascorse in posizione prona e poi, in genere, uno
svezzamento molto lento. Durante l’epidemia da COVID-19 in corso
nel nord Italia, mentre i medici lottano ogni giorno per svezzare i
pazienti dalla ventilazione meccanica, continuano ad arrivare altri
pazienti con grave scompenso respiratorio, e gli ospedali hanno
dovuto abbassare il limite di età dei pazienti da intubare, da 80 a
75 anni in un ospedale, per esempio. Sebbene i medici con cui ho
parlato non fossero in alcun modo responsabili delle risorse
insufficienti, tutti erano particolarmente sofferenti di fronte alla
richiesta di descrivere come venivano prese le decisioni circa la
scelta di quali pazienti intubare. Le mie domande sono state accolte
con il silenzio o con l'esortazione a concentrarsi esclusivamente
sulla necessità di prevenire i contagi e di mantenere opportune
distanze tra le persone. Quando ho insistito con il dottor S., ad
esempio, chiedendo se si stesse badando sull’età per decidere
quali pazienti mettere in ventilazione meccanica, alla fine ha
ammesso quanto gli dispiacesse di parlarne. "Questa non è una
cosa bella da dire", mi ha detto. "Spaventerai solo un
sacco di persone."
Il
dottor S. è solo uno fra i tanti. La sofferenza generata dal dover
prendere queste decisioni ha spinto molti medici della regione a
cercare un consiglio etico. In risposta, il Collegio Italiano di
Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Rianimazione (SIAARTI) ha
formulato raccomandazioni sotto la direzione di Marco Vergano,
anestesista e presidente della Sezione Etica della SIAARTI
(http://www.siaarti.it/SiteAssets/News/COVID19%20-%20documenti%20SIAARTI/SIAARTI%20-%20Covid-19%20-%20Clinical%20Ethics%20Reccomendations.pdf).
Vergano, che ha lavorato sulle raccomandazioni da seguire nella cura
dei pazienti critici in terapia intensiva, ha affermato che il
comitato ha fatto appello alla "ragionevolezza clinica" e a
quello che ha definito un approccio "utilitaristico soft"
di fronte alla scarsità di risorse. Sebbene le linee guida non
suggeriscano che l'età debba essere l'unico fattore che determina
l'allocazione delle risorse, il comitato ha riconosciuto che potrebbe
essere necessario fissare un limite di età per l'ammissione in
terapia intensiva.
Spiegando
la logica delle raccomandazioni, Vergano ha descritto quanto sia
difficile per i pazienti fragili e per gli anziani sopravvivere alla
prolungata intubazione richiesta per superare la polmonite causata da
COVID-19. Per quanto straziante fosse ammetterlo, dopo circa una
settimana di massiccia epidemia, è stato chiaro che intubare
pazienti che avevano probabilità particolarmente basse di
sopravvivere significava negare il supporto ventilatorio a chi invece
aveva più alte speranze di sopravvivenza. In ogni caso, trattandosi
di questioni così spinose, quando si deve mettere in pratica un
razionamento delle risorse, passare il tutto sotto silenzio rende le
cose più facili. D’altro canto, la guida etica è stata anche
ampiamente criticata e i membri del comitato sono stati accusati di
discriminare gli anziani. Altre critiche si sono basate sul fatto che
la gravità della situazione sia stata sovradimensionata e che
COVID-19 in fondo non sia peggio dell'influenza stagionale.
Sebbene
i dilemmi etici, per definizione, non abbiano un’unica risposta
giusta, se e quando altri sistemi sanitari affronteranno simili
decisioni di razionamento delle risorse, il contraccolpo sociale sarà
inevitabile. Per definire un contesto etico che regoli l'allocazione
delle risorse in base alle priorità della società, Lee Biddison (un
intensivista del Johns Hopkins), ha tenuto seminari in tutto il
Maryland per confrontarsi con le posizioni dei membri della comunità.
Il documento risultante, pubblicato nel 2019 e intitolato "Troppi
pazienti ... un quadro per guidare l'allocazione statale della scarsa
ventilazione meccanica durante i disastri" ha fatto notare che
"una pandemia di influenza simile a quella del 1918
richiederebbe una terapia intensiva e una capacità di ventilazione
meccanica significativamente maggiori di quelle ora disponibili” ed
è giunto a principi etici simili a quelli del comitato italiano
(Biddison et al. Chest 2019;155:848-854)..
I
partecipanti hanno mostrato di condividere la bontà della scelta di
salvare i malati con maggiore possibilità di sopravvivenza nel breve
termine, e in seconda battuta, i malati che, grazie all’assenza di
altre patologie coesistenti, avessero maggiori possibilità di
sopravvivenza nel lungo termine. Sebbene i contributi dei
partecipanti abbiano sottolineato che l'età non dovrebbe essere il
criterio principale o unico per l'allocazione delle risorse, tutti
hanno però riconosciuto che esistono circostanze in cui "potrebbe
essere appropriato considerare l’età anagrafica nel processo
decisionale".
Nonostante
tali premesse etiche, quando si verifica una scarsità di risorse, ci
sono molti scenari che potrebbero ancora risultare moralmente
inaccettabili, in particolare a fronte ad una maggiore incertezza
prognostica. Ad esempio, dovremmo togliere la ventilazione meccanica
a un paziente stabilizzato che resiste strenuamente per darla a un
altro paziente entrato da poco in insufficienza respiratoria?
Dovremmo preferire di intubare una 55enne sana rispetto a una giovane
madre con carcinoma mammario la cui prognosi non è chiara? Nel
tentativo di affrontare tali dilemmi, Biddison e colleghi hanno anche
formulato tre principi relativi alla questione che paiono vincolanti
quanto quelli etici.
Il
primo e più importante è separare i medici che forniscono
assistenza da quelli che prendono le decisioni durante il triage,
cioè durante l’inquadramento clinico del paziente. Il
"responsabile del triage", supportato da un team con
esperienza infermieristica e di terapia respiratoria, prenderebbe
decisioni di allocazione delle risorse comunicandole al team clinico,
al paziente e alla famiglia. Il secondo è che le linee guida
generali per tali decisioni dovrebbero essere riviste periodicamente
da un comitato di monitoraggio centralizzato a livello statale per
garantire che non vi siano iniquità o scelte inadeguate. Il terzo è
che anche l'algoritmo di triage dovrebbe essere rivisto regolarmente
man mano che le conoscenze sulla malattia evolvono. Se decidessimo di
non intubare i pazienti con COVID-19 per più di 10 giorni, per
esempio, ma poi venissimo a sapere che questi pazienti hanno bisogno
di almeno 15 giorni per riprendersi, avremo bisogno di cambiare i
nostri algoritmi.
Unificare
tutti questi principi, sia etici che pragmatici, equivale alla
consapevolezza che solo mediante la massima trasparenza e inclusività
sarà possibile ottenere la fiducia e la cooperazione della
popolazione. In tutto il mondo - dai medici con la museruola in Cina,
alle false promesse sulla capacità di eseguire tamponi per COVID-19
negli Stati Uniti, alle confutazioni delle affermazioni sul
razionamento delle risorse in Italia - stiamo osservando che negare
l’evidenza è controproducente. Il momento in cui la capacità di
intervento viene sopraffatta dal panico dipende e dipenderà sempre
dal contesto. Ma la tragedia in Italia rafforza la saggezza di molti
esperti di sanità pubblica: usciremo da questa pandemia con la
coscienza a posto solo se l’unica accusa che ci verrà rivolta sarà
quella di avere affrontato l’emergenza esagerando le contromisure
messe in atto.
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